[FILM] Rebel Moon – Parte 1: Figlia del Fuoco

Zack Snyder è sicuramente uno dei registi più discussi, nel bene e nel male, dell’attuale panorama cinematografico. Oltre che uno dei più divisivi. Personalmente ho sempre apprezzato il suo stile e attendo ogni suo nuovo lavoro con una certa curiosità. Intendiamoci, riconosco perfettamente i limiti di Snyder come regista e sono diversi i film da lui realizzati che non mi hanno soddisfatto pienamente. Tuttavia, ritengo altresì che nel suo lavoro si possano trovare anche molti meriti che sarebbe disonesto non riconoscere.
Rebel Moon è l’ultima fatica del regista (che qui è anche sceneggiatore), prodotto da Netflix e diviso in due parti, la prima delle quali disponibile da dicembre sulla piattaforma di streaming. Si preannunciava essere uno dei progetti più personali e ambiziosi di Snyder e di conseguenza, inutile dirlo, le mie aspettative erano tarate decisamente verso l’alto. Purtroppo però, dopo averlo visto, devo ammettere con un certo rammarico di esserne rimasto abbastanza deluso.

Certo, si può attribuire parte della colpa al suo essere eccessivamente derivativo, laddove il buon Zack, per delineare il suo universo narrativo, ha pescato a piene mani dall’immaginario di Star Wars in primis e di una pletora di altre opere di stampo sci-fi. Qualcuno direbbe ai limiti del plagio. Secondo me però le reali mancanze di Rebel Moon (perlomeno di questa prima parte) sono più profonde ed emergono soprattutto a livello di scrittura.
Il primo inciampo commesso dal regista è forse anche il più sorprendente, perché riguarda un ambito nel quale, fino ad ora, si è sempre dimostrato particolarmente capace: la gestione delle scene d’azione. Ora, il motivo per cui le sequenze action nei precedenti film di Snyder funzionano (magari non sempre, d’accordo, ma il più delle volte è così) è che sono raramente fini a loro stesse ma vengono costruite attorno o in funzione di specifici elementi che danno alla scena una direzione chiara e concreta. Nella famosa Snyder Cut di Justice League, per esempio, questo principio viene applicato alla perfezione. Nella scena dell’attacco di Steppenwolf a Themyscira, l’azione non è che un contorno, mentre il focus rimane sempre la Mother Box che viene passata di mano in mano tra le Amazzoni. Nel combattimento all’impianto nucleare l’azione passa quasi in secondo piano, mentre l’attenzione è concentrata su Cyborg che si dà da fare per portare in salvo gli ostaggi. In breve, è fondamentale, quando si sviluppa una scena d’azione, visualizzare un qualche tipo di traguardo, un obiettivo da raggiungere e verso il quale l’azione stessa si muove, perché questo contribuisce a scandire il ritmo della scena, a darle un senso di progressione e, di conseguenza, a incrementare enormemente il coinvolgimento degli spettatori. Viceversa, non facendolo si rischia di ottenere qualcosa di simile al duello finale tra Anakin e Obi-Wan in La Vendetta dei Sith, visivamente iperdinamico ma paradossalmente statico in termini di sviluppo.
Bene, in Rebel Moon – Parte 1 sembra che Snyder si sia completamente dimenticato di tutto ciò. Non c’è neanche una scena d’azione che segua il principio descritto poc’anzi ma anzi appaiono tutte oltremodo banali, nella loro costruzione, e, per l’appunto, statiche. Lo schema è letteralmente sempre lo stesso: la narrazione si interrompe, i personaggi si picchiano per cinque minuti, la narrazione riprende. Fine. Va da sé che un tale approccio non favorisce il coinvolgimento di chi guarda ma, anzi, a lungo andare rischia di portarlo alla noia.

C’è poi un altro fattore che contribuisce alla sensazione di noia e che fa sembrare il film quantomai prolisso. Mi riferisco al fatto che il dipanarsi degli eventi è davvero troppo lineare, troppo prevedibile. Fondamentalmente la sceneggiatura non devia mai da ciò che lo spettatore è stato istruito ad aspettarsi.
Il problema degli esseri umani è che la loro soglia dell’attenzione tende a calare velocemente e inesorabilmente, se non vengono sottoposti a stimoli frequenti. Per questo motivo, una buona sceneggiatura è quella che riesce a narrare gli avvenimenti non in modo lineare ma inserendo costantemente eventi imprevisti o colpi di scena che sovvertano le aspettative del pubblico e ne mantengano alta l’attenzione. Per dire, non è un caso se la scalata del grattacielo di Dubai in Mission Impossible: Phantom Protocol rimane, ad oggi, una delle sequenze più adrenaliniche mai realizzate in un film d’azione; la ragione è proprio che è letteralmente costellata di imprevisti che tengono alto il livello di tensione e con esso l’interesse del pubblico (uno dei guanti-ventosa ha un malfunzionamento, il laser per tagliare il vetro esplode, la corda è troppo corta…).
Qui, invece, avviene esattamente l’opposto. Per fare un esempio, a un certo punto la missione dei protagonisti richiede loro di atterrare su un pianeta, trovare un generale disertore e convincerlo a unirsi alla loro insurrezione. Ed è esattamente questo quello che succede: atterrano sul pianeta, trovano il generale disertore, lo convincono a unirsi alla loro insurrezione e se ne vanno. Niente di più. Nessun twist, nessun intoppo, nessun guizzo che sfidi le aspettative del pubblico. E questo è un problema che si ripropone bene o male durante l’intero film, finendo inevitabilmente per perdere la presa su chi guarda. Appare tutto troppo semplice, tutto troppo lineare, in definitiva tutto troppo noioso.

Peraltro, anche quando Snyder tenta di vivacizzare le cose, inserendo qualche momento di tensione o di pericolo, il risultato e largamente deludente. Questo perché il regista fallisce nel costruire, attorno a tali momenti, un adeguato contesto che permetta agli spettatori di appassionarvisi. Un esempio lampante è la scena in cui i nostri eroi devono reclutare l’ex principe tenuto in schiavitù dal padrone di una specie di ranch. Quest’ultimo promette di liberarlo, a patto che egli riesca a domare una bestia selvaggia che tiene nel suo recinto, una sorta di grifone nero.
Quella che segue è una sequenza che vorrebbe tenere lo spettatore col fiato sospeso, facendogli domandare se l’uomo riuscirà nell’impresa o se andrà incontro alla morte, ma che in realtà finisce per lasciarlo solo spaesato, perché non gli viene data alcuna informazione che gli consenta di determinare l’effettivo “livello di difficoltà” dell’impresa. Non viene mai mostrata alcuna prova concreta della pericolosità della creatura, non viene mai dato alcun indizio sull’abilità del principe come domatore, non si fa mai cenno ad alcun legame pregresso tra i due. Chi guarda non ha insomma alcun punto di riferimento, non ha idea se dovrebbe sentirsi in apprensione o meno, se ci sia un reale pericolo o meno. Manca del tutto il contesto e di conseguenza mancano le basi per far sentire il pubblico coinvolto.

Un altro errore in cui Rebel Moon incappa è quello di contravvenire alla basilare regola “show, don’t tell”, la quale vorrebbe che le informazioni venissero veicolate il più possibile attraverso le immagini e non semplicemente enunciate a parole, al fine di renderle più concrete e credibili. Anche questo è un errore insolito per Snyder, dato che il visual storytelling è sempre stato uno dei suoi punti di forza (basti pensare ai titoli di testa di molti suoi film, come Sucker Punch).
Se prendiamo ad esempio la scena della donna ragno, le motivazioni dietro al conflitto con i minatori, tutta la questione della perdita dei suoi figli e il suo desiderio di vendetta, viene tutto detto solamente a parole. Anzi, è una cascata di parole riversate sugli spettatori che però appaiono vuote, aleatorie, proprio perché non sono altro che parole. Nessuno dei concetti espressi viene supportato da riferimenti visivi che gli diano concretezza e quindi non si riesce a percepire il peso emotivo che la scena vorrebbe trasmettere. Il film vorrebbe insomma che il pubblico empatizzasse con la creatura ma, ancora una volta, mancano le basi per poterlo fare e conseguentemente anche il successivo combattimento con la spadaccina cyborg finisce per perdere tutto il suo pathos.

Alcuni elementi validi li si può invece trovare quando si passa ad analizzare i personaggi.
La protagonista, Kora, interpretata da Sofia Boutella, regge bene il suo ruolo dall’inizio alla fine. È il personaggio la cui backstory viene esplorata più a fondo, si ha la percezione di conoscerla più intimamente e di conseguenza è facile sentirsi maggiormente coinvolti nel vederla affrontare le difficoltà lungo il cammino.
Tuttavia, il personaggio più riuscito è senza dubbio Gunnar, interpretato da Michiel Huisman. È l’unico ad avere un vero e proprio arco narrativo, nel corso del film; un’evoluzione interiore concreta e coerente. Da umile contadino, si unisce alla missione di Kora per espiare una grave colpa di cui si sente responsabile e da qui prende il via la sua maturazione, fino a diventare l’uomo risoluto di cui i suoi compagni hanno bisogno. Il motivo principale per cui tale arco narrativo risulta tanto efficace è che, al contrario di quasi tutto il resto del film, viene raccontato in maniera per nulla didascalica. Sembra quasi che Snyder, nello scrivere il personaggio di Gunnar, si sia improvvisamente ricordato del principio “show, don’t tell” menzionato poc’anzi (per dimenticarsene nuovamente subito dopo, ahimè).
Infatti il peso della responsabilità che all’inizio lo spinge a lasciare il suo pianeta non viene sbandierato con fiumi di parole ma viene fatto capire attraverso gli sguardi, l’espressività e il distacco emotivo con cui accetta la richiesta di Kora. Il suo sentirsi fuori posto in mezzo ad astronavi e conflitti galattici viene sottolineato dalle interazioni che lo vediamo avere con luoghi e persone al di fuori dell’ambiente che gli è familiare. La sua definitiva trasformazione, nelle battute finali della pellicola, avviene nel momento in cui prende la decisione concreta di agire per salvare i suoi compagni. È proprio questo, il mostrare l’evoluzione di un personaggio attraverso le azioni e non solo le parole, a rendere tale evoluzione credibile e quindi soddisfacente.

Sfortunatamente la stessa qualità non la si può trovare negli altri comprimari, che definire superficiali sarebbe un eufemismo estremamente cortese. Nessuno di essi è spinto da motivazioni più profonde di un generico odio per l’impero malvagio. Non è presente neanche una scena che provi a sviluppare relazioni interpersonali o a creare cameratismo. Se si facesse il conto delle linee di dialogo che ha ognuno di loro nel corso del film, probabilmente qualcuno non arriverebbe nemmeno a dieci. Hanno letteralmente lo spessore di sagome di cartone e quindi è impossibile affezionarcisi o anche solo provare la minima empatia.
Abbastanza efficace, seppur non memorabile, il villain, l’ammiraglio interpretato da Ed Skrein, soprattutto perché può contare su un’ottima introduzione. La scena della contrattazione per il grano all’inizio è ben costruita e riesce a trasmettere non poca tensione. Inoltre il film utilizza un espediente molto elementare ma comunque efficace per rendere il cattivo incisivo: introdurlo facendogli compiere un atto talmente deprecabile da non lasciare dubbi sulla sua malvagità e spingere il pubblico a detestarlo. In questo senso, ricorda un po’ Hans Landa di Bastardi Senza Gloria (non che Snyder sia paragonabile con Tarantino).

Da ultimo, l’impianto estetico di Rebel Moon risulta anch’esso un po’ sottotono, rispetto agli standard a cui il regista ci ha abituati. Beninteso, il gusto per la magniloquenza visiva è sempre presente ma, se prima la ricerca del colpo d’occhio impattante era qualcosa di persistente, all’interno delle sue opere, qui c’è una certa penuria di momenti davvero suggestivi a livello visivo.

Come detto in apertura, Rebel Moon dovrebbe essere, in teoria, uno dei lavori più personali di Zack Snyder. Uno dei più sentiti, in un certo senso. Quello che aveva in cantiere da parecchi anni e che ci teneva particolarmente a realizzare. Invece, alla prova dei fatti, lascia quasi una sensazione di svogliatezza. Come se il buon Zack avesse la mente altrove, mentre era impegnato a girarlo. È senz’altro un peccato ma non tutte le speranze sono perdute per questo nuovo franchise. La Parte 2, dal titolo La Sfregiatrice, è prevista per aprile di quest’anno e potrebbe ancora riservare qualche sorpresa. In più, nel prossimo futuro dovrebbe venir rilasciata anche la director’s cut di Figlia del Fuoco, con quasi un’ora di contenuti inediti, pare. Difficilmente riuscirà a ribaltare le sorti del film ma qualche miglioria potrebbe effettivamente apportarla (con Batman v Superman è stato così, dopotutto). Noi fan di Snyder non possiamo che incrociare le dita.

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